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Primo Levi: dal fascismo ad Auschwitz c’è una linea diretta

L’intervista ritrovata (l’Unità 26.1.11)
Il grande scrittore in una conversazione inedita del 1973 con un giovane studente. «Oggi “Se questo è un uomo” lo riscriverei completamente, per mettere in luce le responsabilità italiane nella Shoah» di Marco Pennacini

La politica: «Il mio libro? Oggi verrebbe fuori una cosa completamente diversa: metterei in risalto il suo valore politico…»
Nel campo: «Immagazzinavamo tutto voracemente, ci interrogavamo a vicenda per sapere ciascuno la storia degli altri»
Invenzioni tricolori: «Lo sterminio industriale è tedesco. Ma la violenza a scopo politico in questo secolo è un’invenzione italiana»
I giovani: «Queste cose vengono sentite come arcaiche, come i garibaldini, come la rivoluzione francese, qualcosa di molto lontano…»

Primo Levi, come mai ha voluto scrivere «Se questo è un uomo»? «Perché ero appena ritornato dalla prigionia, e avevo un tremendo bisogno di raccontare queste cose, un bisogno che diventava ossessione.(…) Nel lager cercavo di immagazzinare tutto, di mettere tutto in una specie di tasca».
Allora vedevi già con un occhio più distaccato quel che ti succedeva… «No, non era possibile. Nel lager c’era il problema di sopravvivere. Sì, avevo una vaga idea di sopravvivere per scrivere, questo sì, mi ricordo di averlo detto a qualcuno. Addirittura quando ero in laboratorio e avevo una matita e un quaderno ho scritto qualche pagina». Che poi hai perso…
«L’ho persa, l’ho scritta così, per l’urgenza di scrivere, sapendo benissimo che poi l’avrei persa». Certo.

«Ma era molto importante per me allora la possibilità di diventare un testimone, lo sentivo già allora. Non solo io, ma un po’ tutti, tutti quelli con cui si parlava dicevano: “È importante sopravvivere per poterlo raccontare perché il mondo le sappia queste cose”. Avevamo piena consapevolezza: però non è che questo ci permettesse di fare gli esploratori del lager. Non era possibile, c’erano questioni immediate, come quello di trovare un pezzo di pane, di proteggersi, di aver salva la vita. Quindi io e altri immagazzinavamo tutto voracemente, tutte le esperienze. Anzi, ci interrogavamo a vicenda per sapere ciascuno la storia degli altri. Ed effettivamente cadevano su un terreno buono, perché queste cose sono indimenticabili. Io ancora adesso mi ricordo le facce di gente vista trent’anni fa».
Le facce?
«Le facce. Tanto che quando mi è successo, come mi è successo, di ritrovarne qualcuno, l’ho subito riconosciuto, e lui me. Ho riconosciuto, ho ritrovato Pikolo, quello del canto di Ulisse… Jean…»
E questa discussione su Ulisse, si è svolta veramente?
«Non c’è̀ niente di inventato nel libro. Non c’è̀ nulla di inventato. non una parola.(…) L’unica autocritica che potrei fare è quella che non ho messo in luce abbastanza questa validità politica del libro».
Parli di “Se questo è un uomo”?
«Se non lo avessi scritto allora lo scriverei adesso». Ma lo scriveresti con le stesse intenzioni?
«No».
Come un documento?
«No: lo scriverei, in primo luogo, con lo stile di un uomo che ha trent’anni di più, e trent’anni di più vogliono dire molta esperienza in più e molta vitalità in meno. Quindi non so cosa verrebbe fuori: verrebbe fuori una cosa completamente diversa. Soprattutto però lo scriverei oggi con riferimento preciso al fascismo di oggi che nel libro non c’è. Quando ho scritto Se questo è un uomo il fascismo era finito, non c’era più, era chiaro come il sole che non c’era. Era finito di fatto, era stato sepolto, come partito politico non c’era né in Italia né in Germania. Ma se lo scrivessi oggi… userei il mio libro come uno strumento».

Lo strumentalizzeresti, diciamo… «Sì, già lo userei come strumento. Lo faccio quando vengono i ragazzi a parlarmi. Tendo a mettere in chiaro che c’è̀ una linea diretta che parte dalle stragi di Torino del ’22 di Piero Brandimarte (capo delle squadre d’azione fascista: è lui a guidare la strage che a Torino, il 18 dicembre del 1922, porta alla morte di 14 antifascisti e alla distruzione della Camera del Lavoro e nel novembre del 1971, al funerale, un reparto di 27 bersaglieri del 22 ̊ reggimento fanteria della divisione Cremona al comando di un ufficiale, rende gli onori militari alla sua salma, ndr) e finisce ad Auschwitz. C’è̀ una continuità abbastanza evidente».
Sì, c’è̀ una continuità, ma hai detto che lo sterminio riguardava i tedeschi, no? «Stiamo parlando di qualcosa che è stato inventato in Italia e perfezionata in Germania»
Ah! è stata inventata in Italia…
«Le prime stragi fasciste sono italiane… sono torinesi». Pensavo che… «Lo sterminio industriale è tedesco. Ma la violenza a scopo politico in questo secolo è un’invenzione italiana».
Ho capito.
«Il fascismo è un brevetto italiano, eh!» Purtroppo… «Torinese, voglio dire. Insomma la strage del ’22…. Era una caccia, una caccia per le strade. Non so se hai letto qualcosa in proposito…». Sì, qualcosa…
«Brandimarte (…), è morto nel suo letto (…). È stato assolto per insufficienza di prove». Sì, ma c’è tanta gente ancora che gira…
«Sì, veterani».
Sì, sì.
«Federali. Capi di gabinetto, capi giunta, Almirante: appunto, se scrivessi oggi, metterei più in chiaro questa cosa (…). Quando ho scritto Se questo è un uomo ero convinto che meritasse la pena di documentare certe cose perché erano finite. Adesso non sono più̀ finite, bisogna parlarne di nuovo».
Allora diciamo che lo scriveresti sotto un profilo meno scientifico, più… «No, penso che non toglierei niente, però aggiungerei molto».
Ah! capisco, e perché non lo fai?
«Perché non si può scrivere due volte lo stesso libro. (…) Come ti dicevo prima, che c’è̀ una linea diretta fra Brandimarte e Auschwitz. Questa linea non finisce ad Auschwitz, continua in Grecia, è continuata in Algeria con i francesi. È continuata in Unione Sovietica, puoi dire di no?» (…)
A proposito di “Se questo è un uomo” e di “La tregua”: credi che servano, diciamo, per educare ad una certa coscienza? «Dipende dall’insegnante. Il fatto stesso che venga scelto quel testo, testimonia che l’insegnante ha delle buone intenzioni, cosa poi ne nasca non so dirtelo. Ho l’impressione che in generale perché vengono molti ragazzi qui, o mi telefonano per avere delle informazioni che queste cose vengono sentite, appunto, come passato remoto, una cosa un capitolo arcaico, come i garibaldini insomma, come la rivoluzione francese, una cosa molto, molto lontana. Infatti è abbastanza lontana nel tempo, ma… solo nel tempo è lontana»… (…)
Con che spirito l’hai scritta “La tregua”? «Ho scritto La tregua nel ‘61-‘62 quando era appena crollato il mito della Russia monolitica, della Russia paese del socialismo, della Russia perfetta, paradiso secondo i comunisti e inferno secondo gli americani, o secondo i nostri democristiani. Erano due visioni talmente manichee, talmente assurde, sia l’una sia l’altra, che mi sembrava molto importante raccontarla così come io l’avevo vista».

Grazie a Pensieri fluidi

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  1. 27 Ottobre 2011 a 20:38 | #1

    Una guida veramente molto carina.Ho capito veramente tante cose oggi! Ciao e Grazie!

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