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Libri : Elogio della Bicicletta di Ivan Illich

velo

Foto: Mesicek

Pedalate d’autore

di Giuseppe Scaraffia, Il Sole24Ore Domenicale, 26 Novembre 2006

“Elogio della Bicicletta” di Ivan Ilich: un mezzo apprezzato o avversato da molti geni. Apollinaire la celebrava, per Nabokov era come un “cerbiatto”, Cioran la cavalcò per girare la Francia

Monsieur, non ho provato la bicicletta, ma ne riconosco tutta la meraviglia pratica. Avrà un’importante influsso sulla specie. Le rimprovero, come spettatore, l’andatura inetta e sgraziata che infligge alle gambe: l’essere umano non si avvicina impudentemente a un meccanismo“. Rispondeva ad un lettore di fine secolo il poeta Mallarmé, uno dei tanti intellettuali affascinati dalle due ruote celebrate da questo brillante saggio di Ivan Ilich come unico rimedio alla crisi energetica.

Sono un mediocre velocipedista, che esercita appena“, si scherniva Emile Zola, convertito al nuovo mezzo nel 1893. In realtà gli piaceva aggirarsi al Bois de Boulogne o vicino alla casa di Médan con Jeanne, la sua amante, e i loro figli. “Guardate! Non è deliziosa la foresta in cui andiamo? E come vi purifica, vi calma e vi incoraggia!“.

Sognava di rientrare a Parigi in bici, ma non riuscì mai a farlo. Riparato in Inghilterra per l’affare Dreyfus, per prima cosa si comprò una bicicletta con cui esplorare la campagna vicino Londra. Parecchie foto lo ritraggono in tenuta da ciclista, seduto sul sellino. Lo scrittore era convinto che la bicicletta fosse essenziale per l’emancipazione femminile. Non solo per le gite in cui i due sessi si mescolavano, ma anche perché rendevano possibile sostituire alla gonna delle sportive culotte. Un’ipotesi paventata a Mallarmé che, nella sua rivista di moda femminile consigliava alle lettrici smaniose di mostrare le gambe sul velocipede, di non abbandonare le gonne per i troppo maschili pantaloni. Non a caso la moderna Albertine di Proust era una ciclista.

I più begli anni della mia vita li ho passati andando in bici!“, ammetteva lo scettico Renard. Per il patriottico Barres, la bicicletta era perfetta per esplorare la nativa Lorena. “Partire verso l’ignoto, errare a distanze mai raggiunte da cavalieri o pedoni, basarsi soltanto sulle proprie forze: ecco quel che ci permette la bicicletta. Soddisfa in noi l’antico istinto del vagabondaggio“.

Fedele alle due ruote, Jarry non si toglieva mai i le scarpe e i pantaloni da bicicletta. “Serve a fare il giro della stanza!“, spiegava l’inventore di Ubù Re ai visitatori, stupiti di trovare una bici – “il mio scheletro esterno” – appoggiata al letto. Poi, per dimostrarlo, saliva e pedalava flemmaticamente”.

Lo spericolato D’Annunzio, a Parigi, venne addirittura multato perché aveva violato le norme stradali. Apollinaire in trincea celebrava, in omaggio alla “nuova religione della velocità” predicata da Marinetti, la rapidità folgorante delle ruote delle biciclette. Nel 1918 Hemingway portava in bicicletta generi di conforto alle truppe in prima linea. Nabokov prediligeva quella “mirabile macchina che sembra un cerbiatto“. “Passavo in bicicletta con la brusca sensazione di fare una “esplorazione abbagliante”. Nell’estate del 1920 Huxley si era comprato una bicicletta. Faceva ogni giorno quindici chilometri e gli piaceva pedalare nei giardini di Londra. “La bicicletta dà alla mente occasione per riflettere, un’attività soppressa nell’universo del lavoro quotidiano. Senza la bici per liberarli, certi pensieri potrebbero passare inosservati“. Shaw riteneva che “il ciclismo eleva lo spirito”; Wells diceva: “Ogni volta che vedo un adulto in bicicletta, penso che per la razza umana ci sia ancora speranza“. Per il sociologo Ivan Ilich, le relazioni sociali democratiche possono andare solo alla velocità della bici.

Nel 1931, in una lettera da una clinica, Zelda confessava a Scott Fitzgerald “una voglia così disperata di correre in bicicletta fino in fondo a una lunga strada bianca“. Appena arrivato dalla Romania, il cinico Cioran si divertì a girare la Francia in lungo e in largo. “Tra l’utopia e il nihilismo c’è un territorio di felicità relativa, di pomeriggi in bicicletta”.

Panzini usava una severa Opel con un freno solo. Per Saroyan le due ruote erano “la più nobile invenzione dell’uomo“. Henry Miller aveva insegnato alla moglie June ad andare sulla bici, che era il suo “migliore amico”. Sul sellino, l’introverso Beckett si sentiva un “moderno centauro”. Per Malaparte, che pedalava sul lungo terrazzo della casa di Capri, la bicicletta in Italia fa parte del patrimonio artistico nazionale, come la Gioconda. Prima di spingersi sulle strade in salita dell’esilio svizzero, Morand si era fatto fotografare in giacca di tweed al volante, anzi al manubrio di un vélo-taxi, il ciclotaxi lanciato dalla mancanza di benzina durante l’occupazione tedesca.

Ma in bicicletta si potevano avere anche degli incidenti. Annemarie Schwarzenbach, in Engadina, volle salire su una vecchia bici, per vedere se sapeva ancora andare senza mani come una volta, ma cadde e si ferì gravemente. Aveva ragione Einstein: “La vita è come una bicicletta, bisogna andare avanti per non perdere l’equilibrio“.

Ivan Ilich “Elogio della bicicletta“, a cura di Franco La Cecla, Bollati Boringhieri, Torino pagg.80, €7,00

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