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L’apocalisse del mondo storto

Albero

Per descrivere questi giorni…

L’apocalisse del mondo storto
Repubblica, 20 aprile 2008, pagina 44, sezione: DOMENICALE

Un giorno il mondo si sveglia e scopre che non c’ è più petrolio, né corrente elettrica, né gas, né carbone. Nei paesi di montagna la situazione è abbastanza affrontabile, nelle città il discorso cambia. E’ inverno, l’ inverno freddo e umido delle città con le nebbie e la solitudine di ognuno che messa assieme diventa di massa. I primi giorni la gente li supera, con tabarri e spavento, ormai sa tutto. Hanno capito che non c’ è carburante, corrente, gas, carbone.

Nessuno si chiede perché, il freddo morde, privi di forza elettrica i bruciatori non vanno. Il mondo piglia paura. Con l’ ultima benzina la gente di città corre a comprare stufe, fornelli, qualche aggeggio che funzioni a legna. Ma non ce n’è per tutti, le stufe erano considerate archeologia ridicola. Gli ultimi raccattano bidoni, contenitori di ghisa, di ferro, d’ acciaio con l’ intenzione di cavarne stufe. Però manca legna, in molte case e condomini non c’è canna fumaria. Allora ci si attacca al camino del bruciatore, s’infilano i tubi direttamente da un buco della finestra, tanto più sporche di così le città non diventano. Resta il problema legna. Camion non arrivano, sono a secco, treni neanche, macchine peggio, dopo alcuni giorni han finito la riserva. Negozi e supermarket, che vendevano mattonelle, carbone, pellet, cilindri di legno pressato per i barbecue domenicali, sono stati svuotati in un giorno. Rimane roba nei magazzini, quella se la tengono i padroni, per scaldarsi loro. La paura aumenta: “Fa freddo, che facciamo?“. A quel punto la gente decide che si può fare a meno di un mucchio di robe. Robe inutili che ingombrano la casa, robe di legno. Fanno a pezzi e bruciano tutto quel che non serve. Si scaldano. Ma il freddo insiste, l’ inverno è lungo. “Si può fare a meno delle sedie – dicono – mangiamo in piedi“. Scaldandosi, le sedie finiscono. Allora dicono che si può fare a meno di tavoli, mensole, armadi, porta-fiori, della libreria chi ce l’ ha, e di tutto quel che è legno. Poi s’ accorgono che si può dormire senza letto, sui materassi. Fanno legna di letti matrimoniali e singoli, massicci o impiallacciati, comodini e affini senza il minimo rimpianto. Scoprono che, di fronte al bisogno, niente ha più valore della vita. Altro che ricordi della nonna! Via quell’ attaccapanni antico, e quella madia del Seicento, roba di noce, arde che è un piacere. Alla sera non c’ è televisione, questa è dura da mandar giù. “Che facciamo?“. Manca corrente, niente tv, né luci, né forni a microonde, né gratta-formaggio, né sbatti-uova, niente di niente. Le prime notti sono da incubo, non si dorme un secondo. Abituati alla compagnia di Fede, Baudo, Vespa, Bongiorno, Santoro, Fiorello, in Italia nessuno dorme più. Come faremo a passare le serate senza quelli?. Qualcuno azzarda: Si potrebbe leggere, proviamo a leggere. Cercano riviste, giornali, libri, sillabari, elenchi telefonici, cercano tutto quel che è scolpito a parole. Corrono nelle biblioteche, nelle librerie, alle edicole, si procurano riviste, giornali, libri. Li trovano impilati per terra. Scaffali, porta-libri, scansie e armadi sono serviti a scaldarsi. Si legge a lume di candela, lampade a petrolio, ma le scorte finiscono. Allora le gente legge alla luce del giorno fino al crepuscolo, poi si mette a chiacchierare, a contar storie al buio, finché arriva un po’ di sonno. Ma non è tutto così semplice. Molti diventano pazzi, vagano per le città scure come miniere di carbone, molti si tolgono la vita, altri muoiono in disperazione. Non è facile rimanere senza comodità. Le comodità perse di colpo creano panico, non siamo preparati. Le fabbriche hanno chiuso, le scuole pure, osterie, bar, ritrovi, discoteche, anche. Tutto chiuso. Di giorno la gente si muove a piedi o in bicicletta. Sulle biciclette hanno montato ceste, pianali, servono a portare a casa qualcosa di utile. Si comincia a scambiarsi roba. E’ dura, durissima. La roba pian piano cala, sta per finire, finisce, serpeggia il panico. Gli ospedali sono vuoti, chi non è morto è guarito, chi ce l’ ha fatta si è trascinato a casa a morire o guarire. Senza corrente i chirurghi non operano, sacche di sangue vanno a male, respiratori bloccati, ascensori, cucine, tutto fermo, morti a camionate. Negli ospizi i vecchi hanno resistito poco, sono crepati di fame e di stenti. I morti li seppelliscono dove capita, scavano con picconi e badili, li mettono già vestiti. Nel mondo sono milioni. Manca latte per i neonati, i neonati muoiono, vecchi e bambini sono sempre i primi a morire. Mamme e papà vanno in bicicletta o a piedi fino alle campagne, cercano un bottiglione di latte per i bimbi rimasti. Previdenti contadini hanno i depositi colmi di fieno, possono tirare avanti fino all’ estate, quando crescerà erba nuova per il bestiame. Ma c’è da eliminare vacche, l’ erba nuova bisogna falciarla a mano, a mano è difficile mantenere mandrie. I contadini scoprono che non hanno più falci. E allora di corsa alla ricerca di vecchie falci nelle soffitte, negli scantinati. Vengono saccheggiati i muffosi “musei del contadino” per recuperare gli attrezzi indispensabili che stavano da anni chiusi in bacheche di vetro e legno. Il legno serve a far fuoco. Gli attrezzi c’ erano, vengono recuperati ma pochi sanno usarli. Gran parte della gente non sa nemmeno cosa sono, a che servono. Qualche vecchio contadino spiega e insegna. In primavera occorre rimettersi a seminare, o si crepa di fame. Alcuni ingegneri montano mulini a vento per fare un po’ di corrente, altri recuperano pannelli solari. A Milano sole ce n’è poco ma è pur sempre un filo di corrente che viene. Con quella corrente si fanno cose urgenti. Gli ospedali sono chiusi ma i medici vanno e vengono. Eseguono qualche intervento semplice facendo bollire i ferri con acqua e sale, sulle stufe improvvisate. Non possono far bollire le siringhe, sono di plastica, si sciolgono. Giornali non ne escono più, le macchine sono ferme, e i computer idem. Giornalisti di testate famose vanno nelle piazze e raccontano a voce quel che hanno sentito e visto. Per quelli che passano dopo, scrivono le notizie col carbone sulle facciate dei muri, sull’ asfalto. Vergano notizie e parole d’ incoraggiamento. Non riescono a fare a meno di scrivere, mestiere è mestiere, devono informare. E si firmano. Quando l’ acqua tocca il culo s’ impara a nuotare, ammonisce una scritta. Nelle città regna un silenzio che fa torcer le budella. Non circola una macchina, una moto, un motorino, solo gente a piedi o in bicicletta. Però non c’è un grammo di immondizia. Per sopravvivere si è riciclato tutto, fino all’ultimo turacciolo. Si vede in giro gente con giubbotti multicolori confezionati assemblando buste di cellofan una sopra l’ altra. Tengono caldo, tengono fuori il vento. Con quintali di bottiglie di plastica hanno fatto grondaie per catturare acqua piovana, può sempre andare bene l’ acqua. Adoperano tutti gli scarti. Confezionano calze di carta, maglie di giornali e altre robe. Con quello che non serve accendono falò per scaldarsi. Nelle città sono venuti a sapere che i paesi di montagna se la cavano meglio. Quei montanari incolti hanno boschi, prati, campi, orti, stufe, falci, zappe, badili, vanghe e picconi. E allora vanno su. I vecchi della montagna sanno far qualcosa con le mani, insegnano ai fuggiaschi che imparano subito. Pian piano, tra morti e caos, torna la primavera, quel che la gente aspettava. Col sole tiepido i superstiti si mettono a fare, avviene il miracolo. Nelle periferie e nelle città, ogni angolo di verde, giardini, campi da golf, campi sportivi, terre incolte, parchi, terrazze, scarpate di ferrovie, aiuole, vengono accuratamente vangate e, con l’ aiuto dei contadini, seminate. Seminate a tutto: patate, fagioli, radicchi, insalate, cicorie, verze, cavoli, angurie, rape, ravanelli, carote. Tutto quel che si può mangiare quando mette fuori il muso dalla terra lo hanno seminato. In città non c’è più un cane, un gatto, un criceto, un canarino nemmeno a pagarlo oro. Si sono mangiati tutto, anche certi pitoni e boa che tenevano nei salotti per compagnia. Le verdure crescono, proliferano, si allargano. C’è qualche furto, roba da poco, tutti coltivano terra dove la trovano, non occorre rubare niente, la gente divide e offre. Non occorre nemmeno uccidere, la gente crepa da sola. E’ morto un tre quarti del pianeta: di panico, di follia, di fame, di freddo. C’è chi è morto di tristezza per non avere più le comodità che aveva un tempo. I ricchi, diventati poveri, si danno da fare più degli altri perché, più degli altri, hanno paura di crepare. Nelle zone che furono opulente, il Nord a esempio, si vedono magnati dell’ industria, dell’ editoria, delle televisioni, padroni di fabbriche, stabilimenti, che coltivano patate, fagioli e verzure varie. Inginocchiati negli immensi parchi delle loro ville, dove prima c’ erano orchidee e piante non commestibili, i capitani d’ industria zappano, sarchiano, vangano, seminano, spellandosi le mani non avvezze al badile. Lo devono fare, devono piegare la schiena, per forza, fanno la gobba, le schiene scricchiolano come gerle secche. Non trovano nessuno che lavori al posto loro, nemmeno per un milione di euro al giorno. La gente ha capito che i soldi non comprano un accidente, coi soldi si crepa di fame. Un catino di patate lesse senza sale vale un milione di volte più di un milione di euro. Privi di propulsori, i sopravvissuti hanno capito tutto. L’ estate è un dono di Dio, non serve fuoco e nemmeno andare in ferie. Si bada alle verzure, si va in giro a raccogliere e far deposito di legna per l’ inverno. Pian piano le città han raggiunto le campagne, son diventate campagne loro stesse. Cittadini e contadini si aiutano. Allevano di nuovo bestiame per latte e carne, uova, col pellame crudo fanno ciabatte, giacche. Coltivano campi, curano prati per i fieni, falciano a mano. I miliardari, con barche a vela miliardarie, battono le coste a pescare, tagliano pinete per far legna, la spostano in barca, poi a spalle, la dividono con gli altri. Tutti piantano alberi per il tempo a venire. Politici non ce n’è più neanche uno, quelli che non sono morti di inettitudine si sono sparpagliati per le campagne, tastano l’ aria con la lingua come le vipere, annusano, cercano, imparano dai contadini a coltivare. Uno predilige la cicoria, l’ altro le verze, un altro i cavolfiori. Coltivano. Il più in difficoltà è stato un ministro dell’ agricoltura: non sapeva da che parte tenere il badile. In difficoltà anche i politici che al tempo delle vacche grasse si occupavano di operai e lavoro. Non sanno fare niente, nemmeno il lavoro più semplice. Molti abitanti delle città hanno raggiunto le montagne per dividere coi montanari un pasto al giorno e apprendere i trucchi del sopravvivere. A Ripido, piccolo paese del Friuli, arriva un milanese in bicicletta, nota il mulino che funziona con la forza dell’ acqua. Vede in giro campi di pannocchie, dice di voler comprare tutto. E’ uno grintoso, ha più miliardi lui che ciottoli i torrenti. E’ abituato a comprare tutto coi soldi. Offre al mugnaio milioni di euro ma il mugnaio lo manda in quel posto. Il tipo stacca una valigia dalla canna della bici. Dice al mugnaio: Oltre ai soldi ti do questi. Cava dalla valigia una decina di tele arrotolate. Sono quadri di Van Gogh, Caravaggio, Picasso.

Quelli – dice il mugnaio – non son buoni neanche a far fuoco, dei suoi quadri e dei suoi soldi non so che farmene, e neanche lei, mi pare, sa che farsene.

E’ vero, risponde l’ uomo.

Era ora – ribatte il mugnaio – finalmente i soldi fanno vedere il muso che hanno, maledetta carta di merda. In questa disgrazia occorre il mangiare. La più piccola rapa serve a star vivi. Una pannocchia fa vivere un giorno e siccome tutti vogliono vivere un giorno in più, non vendono la pannocchia neanche per miliardi di euro.

E adesso, se vuol mangiare, tiri su le maniche.

L’ uomo pensa: Cribbio, tempo fa quando c’ era petrolio, corrente, gas e carbone, comandavo io. Coi soldi compravo tutto, e tutti si facevano comprare. Coi miei soldi potevano avere quel che volevano, quel che sognavano. Adesso vale più una patata che i miei imperi.

Il mugnaio dice: Quando c’è da crepar di fame e di freddo, una patata e una stufa diventano dio, un dio da rispettare. Un giorno di vita in più chiama speranza, può succedere qualcosa che domani cambia le cose in meglio.

E’ vero, risponde il ricco.

Ma non butta via le tele, le rimette in valigia. Nelle metropoli, i sopravvissuti si organizzano, si danno da fare, non piangono neppure i morti, per piangere ci vuole sicurezza e pancia piena. Quando sai che domani il morto puoi essere tu, non stai a piangere i morti, cerchi di salvare la pellaccia, di allungarti la vita per quel famoso giorno in più. Fiorisce un primitivo artigianato fatto di scarti, non si butta via niente, tutto viene usato per sopravvivere. Con la cenere dei fuochi lavano la faccia, con qualche straccio e escrementi secchi accendono il fuoco. Però, in questo disastro mondiale, in questa situazione limite, i sopravvissuti, spazzini e re, miliardari e miserabili, giusti ed empi, intelligenti e coglioni, s’ accorgono di aver recuperato una cosa che non esisteva più, una cosa appartenuta forse ai loro trisavoli: la lentezza. Vanno piano a fare tutto, anche a mangiare il poco che hanno. Dormono dodici, quindici ore, serenamente rassegnati al destino. I grandi manager, vestiti con quel che trovano, non hanno più agende fitte di appuntamenti, non competono più, non baruffano, non hanno più l’ assillo di pigliar treni, aerei, automobili. I capitani d’ industria non tengono più riunioni di cda, non cercano mercati in Cina, i cinesi avanzati non invadono più niente, tranne i campi di riso per resistere. La gente rimasta va a dormire quando fa buio, si alza quando fa chiaro. Non hanno orologi né sveglie né cellulari. Hanno sempre fame, mangiano poco e quando possono, non ce n’è uno che abbia un filo di grasso. Gente che prima stava male perché piena di stress, superlavoro, supercibo, supersoldi, supermiseria e superfame adesso si è livellata e sta da dio. Uomini, donne, bambini sono magri, sani, tirati come fildiferri. Non hanno più orari, non hanno doveri, né impegni, non temono nemmeno i ladri. Banche e gioiellerie rimangono aperte, nessuno tocca niente. Oro e diamanti hanno meno valore della spazzatura con la quale si confezionano abiti. I computer sono morti e a nessuno frega niente. Senza la vita del filo elettrico, sono scatole grigie, piene di misteri e tesori inutili. In questa immane tragedia planetaria, i superstiti si sono accorti di quante robe superflue e cianfrusaglie inutili si circondavano prima del disastro. Erano diventati drogati, oggetto-dipendenti. Uomini che credevano di gestire gli oggetti venivano invece gestiti da loro. Ora, finalmente, si sono liberati, la sorte li ha liberati. Da soli non sarebbero mai riusciti. Deve sempre intervenire una forza esterna a farci perdere i vizi. La micidiale austerità ha tolto ai superstiti vizi, orpelli, esigenze, orari e obblighi. Li ha liberati senza tante storie. Tutto questo in cambio di tempo. Ha regalato tempo libero. Piano piano, i superstiti imparano a sopportare il silenzio, poi a goderne. Vanno a piedi per città silenziose prive di clangori, clacson, motori, urla, schiamazzi, fumo. Nel cielo di queste città si rivedono le stelle. I superstiti tacciono, o parlano piano, silenzio chiama silenzio. Apprezzano la bontà del cibo improvvisato, la scarsità di mezzi, l’ essenzialità di un vestito fatto di stracci, di tela o di cartone. Ma ascoltano ogni sussurro. Nelle notti buie e silenziose, sentono canti di uccelli notturni. Fanno l’ amore senza progetti per il domani, senza ipoteche sul futuro, senza l’ incubo del mutuo. Nascono bambini che le mamme allattano al seno. Nelle ristrettezze le donne si sono affilate, sono diventate cerve, camosce, capriole, leonesse. Sono diventate forti, naturali, attente. Hanno rifatto il latte nelle mammelle come le bestie. Non tutti i neonati sopravvivono, quelli che ce la fanno crescono sani. S’ accorgono, i superstiti, che tutte le cose scomparse da tempo, cose che nemmeno conoscevano, tornano gradite e affettuose suscitando sorpresa e allegria come un animale estinto che riappare d’ improvviso. Giorno dopo giorno, s’ accorgono che vivere è come scolpire, bisogna tirar via, togliere per vedere. Occorre non avere per apprezzare quando arriva qualcosa. In quelle condizioni non serve far progetti, piani di lavoro, strategie, per questo dormono tranquilli. Sono tutti ricchi uguali e poveri uguali. Nascono ogni mattina e ripartono ogni mattina, da quello che resta. Da quel che riescono a fare.

Che bene si sta – dicono – adesso possiamo pregare per i morti.

Tratto dal romanzo “La fine del mondo storto” di Mauro Corona (mai pubblicato) – MAURO CORONA

Grazie Mauro Corona

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