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In difesa della Finanziaria – L’intervento al Senato del Ministro dell’Economia

di Tommaso Padoa-Schioppa

Signor Presidente, onorevoli senatori, prendo la parola in quest’Aula per invitare il Senato ad approvare la legge finanziaria e il bilancio che il Governo presenta e su cui chiede che gli sia rinnovata la fiducia.

Da oltre ottanta giorni la manovra sui conti pubblici è oggetto di intenso lavoro nelle Camere elette dal popolo, viene discussa in ogni dettaglio sui giornali, alla televisione e nelle piazze. Il segno di quanto mi accingo a dire è espresso dalla stessa parola che dà il nome a questa procedura: fiducia. Fiducia nelle energie del Paese, nelle sue possibilità, nella capacità degli italiani di distinguere i fatti veri dalle false rappresentazioni, di udire le voci argomentanti anche attraverso il frastuono.

Si usa dire che la politica è l’arte del possibile, ma è stato anche detto che la politica deve rendere possibile ciò che è necessario. Abbiamo cercato di farlo e abbiamo la profonda convinzione, conoscendo l’Italia e gli italiani (quelli che parlano e quelli che tacciono, quelli che lavorano e quelli che si preparano al lavoro) che, operando per il meglio nella difficile situazione ereditata, stiamo preparando per il Paese un futuro più sereno e costruttivo del presente e che questo sarà riconosciuto. Nessun atto di Governo, e tanto meno la legge finanziaria, che dell’attività del Governo costituisce un elemento fondamentale, può essere valutato senza rapportarlo da un lato ai fatti, dall’altro agli obbiettivi.

Poiché è stato detto, ripetutamente, che questi fatti e questi obiettivi non sono stati comunicati in modo chiaro, cercherò di farlo di nuovo nel modo più sintetico, in questa sede, che è la massima sede istituzionale e costituzionale per il Governo.

I fatti che ci siamo trovati davanti sono semplici. L’Italia ha accumulato negli anni un debito pubblico esorbitante, immenso, con pochi paralleli al mondo: 1.600 miliardi di euro; per pagarne gli interessi, occorre reperire ogni anno 70 miliardi. Dal 2005 il peso di quel debito ha ricominciato a crescere più rapidamente della produzione nazionale; ciò che non era più avvenuto dal 1994. Senza l’euro e senza la ritrovata stabilità dei prezzi, due obbiettivi faticosamente e meritoriamente raggiunti dal I Governo Prodi, il peso degli interessi sarebbe insostenibile.

I buoni del Tesoro vengono sottoscritti in larga parte dal mercato internazionale dei capitali. Se i conti dell’Italia fossero giudicati poco affidabili – e ancora oggi siamo sull’orlo di questo giudizio negativo – la legge del mercato imporrebbe un rialzo dei tassi, altrimenti i titoli dello Stato italiano resterebbero non collocati. Un solo punto in più di interessi sul debito aggrava la spesa pubblica di 15 miliardi di euro: un punto del prodotto interno lordo; ogni anno, non una tantum. Questo è il semplice fatto da cui partire; questo è il fatto troppo spesso taciuto nelle discussioni delle ultime settimane.

Ecco perché l’azzeramento dell’avanzo primario, perpetrato nella legislatura passata dal precedente Governo, è un fatto di straordinaria gravità. Si è distrutto in pochi anni quanto si era faticosamente costruito in molti anni. In un Paese meno indebitato il fatto non sarebbe troppo grave; lo è in Italia per le ragioni dette. In passato, prima dell’euro, la soluzione era semplice: si creava inflazione e si svalutava. Quella che Luigi Einaudi chiamava la tassa più ingiusta era il rimedio perverso per tirare avanti. Oggi, fortunatamente, questo rimedio non è più possibile.

L’avanzo primario è il saldo dei nostri conti al netto della spesa per interessi; è l’ossigeno, la riserva per poter onorare i debiti e pensare al futuro; è il risparmio della collettività. Come una famiglia, come un’impresa, anche la collettività deve amministrarsi guardando al futuro e non solo al presente. L’accumulo eccessivo dell’indebitamento è, prima di tutto, miopia egoismo, sacrificio del benessere di domani al benessere di oggi, espropriazione dei figli e dei nipoti; è peggio della condotta della cicala, che nella favola non accumula debiti, ma si limita a consumare l’esistente.

Come correre ai ripari?

Nell’enunciazione la risposta è semplice: si rimedia mettendo a posti i conti, non perché ce lo impone l’Europa, ma perché ce lo impongono la salute pubblica, l’interesse nazionale e l’elementare buon senso. Questa risposta è stata annunciata nel giugno scorso dal Governo, che ha indicato anche le quantità necessarie allo scopo.

Il disegno di legge finanziaria, che state per votare, raggiunge l’obiettivo di risanare i conti evitando il collasso finanziario del Paese al quale eravamo esposti? La risposta, di nuovo, è semplice: se l’obiettivo di risanare i conti viene raggiunto. Con una manovra per la massima parte strutturale viene, in un colpo solo, ricostituito un avanzo primario che già nel 2007 raggiungerà il 2 per cento. E in un solo anno viene riportato sotto il 3 per cento il disavanzo che da quattro anni era superiore ai parametri europei e che, in assenza di interventi, si sarebbe collocato a valori prossimi al 4 per cento.

Viene così rispettato l’impegno assunto dal precedente Governo al termine della passata legislatura. Anche su questo fatto si è troppo taciuto nelle ultime settimane. Non è stato facile mettere a punto le misure necessarie per il risanamento. Nonostante la presenza, nella maggioranza che ha vinto le elezioni, di culture politiche molto lontane tra loro nella loro genesi, l’obiettivo è stato raggiunto.

La pluralità delle voci si è tradotta nell’omogeneità dei comportamenti. Che l’intero schieramento della maggioranza abbia condiviso le responsabilità e le scelte necessarie per governare in una situazione difficile qual’è  la nostra è un fatto d’importanza storica per l’Italia: un fatto che sembra passare inosservato.

Se ci fossimo limitati, per la legge finanziaria del 2007, a fotografare il tendenziale, se non avessimo modificato nulla rispetto disposizioni della finanziaria precedente, sarebbero accadute quattro cose: in primo luogo, saremmo andati “sotto” di ben 15 miliardi di euro rispetto all’impegno assunto dal Paese nel 2005 per rientrare nei parametri di sana gestione sottoscritti nei Trattati. In secondo luogo, avremmo dovuto rinunciare a interventi di spesa essenziali, bloccando le ferrovie, interrompendo i lavori per le strade, sospendendo le missioni di pace, non potendo rinnovare i contratti per l’impiego pubblico e così via.

Inoltre, avremmo dovuto rinunciare a ogni intervento di stimolazione dell’economia e dell’innovazione. Infine, avremmo dovuto rinunciare a forme di sostegno alle famiglie con figli, alle donne lavoratrici, agli anziani bisognosi ed altro ancora. Risanamento, sviluppo, equità.

Per soddisfare queste quattro esigenze occorrevano risorse. Come reperirle? Le sole due vie possibili sono evidenti: ridurre le spese e aumentare le entrate. E’ vera l’affermazione, che si continua a ripetere quasi ossessivamente, che questa finanziaria opera solo sulle entrate e non fa nulla sulle spese? La risposta anche qui è chiara: l’affermazione è semplicemente falsa. Basta leggere le cifre per quello che sono.

Questa finanziaria attua un contenimento della spesa corrente che ha pochi precedenti nel passato e rappresenta una vera propria inversione di rotta rispetto alle tendenze in atto. Si ferma un treno in corsa e lo si fa operando sul motore, non solo sul freno. Lo si fa con misure permanenti e strutturali; non con palliativi da escogitare ogni anno di bel nuovo.

Per la prima volta si mette un vincolo all’aumento, sinora quasi incontrollato, della spesa sanitaria e questo – si noti – in accordo con le Regioni. Per la prima volta si imbocca, concordandola con essi, un iter di razionalizzazione della spesa dei Comuni. Le due misure introducono elementi importantissimi di federalismo fiscale, da tempo auspicati, ma non attuati sino ad oggi: al federalismo proclamato per una legislatura subentra il federalismo praticato. Sulle spese dei Ministeri si effettuano, più che in ognuna delle precedenti manovre di bilancio, risparmi sostanziali, eliminando – ove possibile – il superfluo. E altro ancora. Il tutto per un somma complessiva di oltre 10 miliardi euro.

Un intervento pur tanto rigoroso non poteva, tuttavia, bastare: né per l’economia, né per la crescita, né per l’equità. Per l’economia occorreva rifinanziare ferrovie e opere pubbliche che, tra l’altro, rappresentano sostegni all’occupazione: circa 4 miliardi. Per l’economia e per la crescita occorreva alleggerire il costo del lavoro, così da rendere più competitive le nostre imprese: il cuneo fiscale costerà nel 2007 circa 5 miliardi, una parte dei quali andrà in busta paga. Per l’equità occorreva sostenere le famiglie e il lavoro femminile, i disabili e gli anziani indigenti; occorreva far pagare qualcosa di meno a chi guadagna di meno.

Dunque, maggiori spese pubbliche, certo, ma anche spese pubbliche necessarie, spese d’investimento e spese per infrastrutture. Spese necessarie a conseguire obiettivi essenziali di efficienza e di crescita. La ricerca e l’università, certo meritevoli in futuro di investimenti ulteriori, sono comunque i comparti nei quali si è fatto ogni sforzo possibile per non pregiudicare gli investimenti.

Rispetto all’evoluzione che si sarebbe avuta in assenza di interventi, si attua una ricomposizione e riqualificazione importante dalla spesa corrente, che viene ridotta, a quella in conto capitale, che viene sostanzialmente incrementata. Anche questo fatto è stato quasi del tutto ignorato nella discussione delle ultime settimane.

Vengo alle entrate. Sul fronte delle entrate si è puntato anzitutto al recupero dell’evasione fiscale: far pagare le tasse a chi non le paga. Nel valutare la pressione fiscale, l’aumento delle entrate derivanti dal ridursi dell’evasione è cosa ben diversa dall’aumento delle aliquote legali di prelievo. Non dispiaccia, questa affermazione, a chi non ama sentirla ripetere: la ripeto per rispetto ai tantissimi italiani che fanno il loro dovere di contribuenti onesti.

La lotta all’evasione significa in primo luogo distribuire più equamente il carico tributario, non significa aumentarlo. Ed è stato proprio il Senato a tradurre in norma l’impegno politico più volte enunciato dal Governo di ridurre le aliquote di prelievo allorché la lotta all’evasione abbia prodotto un permanente aumento delle entrate. L’evasione, che in Italia è patologia allo stato epidemico, può venir progressivamente arginata e ridotta a patologia sporadica. Non certo con i condoni. Al contrario: con politiche fiscali tenaci e continue, come quelle che abbiamo intrapreso. I primi risultati già si vedono, altri verranno. Quando saranno consolidati, si spera in tempi brevi, si potrà finalmente cominciare a far diminuire le aliquote.

Un’altra parte delle risorse necessarie per la crescita viene dall’impiego di una parte (la sola parte che i lavoratori liberalmente decideranno di non assegnare alla previdenza integrativa) del Trattamento di fine rapporto delle imprese con più di 50 dipendenti. Questa misura non toglie assolutamente nulla né alle imprese, né ai lavoratori, come ha spiegato lucidamente una voce isolata su un quotidiano di cui è editore proprio la Confederazione degli industriali (il Sole 24Ore, ndr). I soldi sono e restano dei lavoratori e l’INPS si limita ad investirli in infrastrutture per raggiungere scopi largamente condivisi. Dove sta lo scandalo? Un fuoco di paglia violento e fatuo. La riprova è che del TFR da qualche settimana non si parla più.

Invece, la pressione tributaria (le tasse sui cittadini e le imprese che già adempiono al loro dovere fiscale) viene ridotta già in questa finanziaria, se si tiene conto del complesso delle misure adottate. Aumentano sì i contributi previdenziali, ma (particolarmente col passaggio al sistema contributivo che è in corso) i contributi previdenziali rappresentano un risparmio dei lavoratori che verrà loro restituito in forma di maggiori pensioni future e non sono quindi assimilabili alle tasse in senso stretto. L’aumento è necessario, non solo per assicurare l’equilibrio del sistema nel lungo periodo, ma anche per migliorare le pensioni future dei giovani.

Nel complesso, l’aumento del prelievo aggiuntivo sul settore privato rappresenta una quota modestissima della manovra complessiva. E’, questo, un altro dato di fatto troppo spesso trascurato dall’analisi cui la manovra finanziaria è stata sottoposta in queste settimane.

Si sarebbe potuto procedere ritoccando un solo comparto, ad esempio alzando l’IVA; la Germania della grande coalizione l’ha alzata di tre punti. Questa scelta è stata scartata per non creare intralci ai consumi e alla crescita. Si è preferito rimodulare con mano leggera una serie di comparti allo scopo di coniugare la cura per la crescita con quella per l’equità. Chi ha parlato ossessivamente di un rialzo generalizzato dell’imposizione fiscale, di 67 nuove tasse, ha deliberatamente ignorato questi dati, i quali non si annullano certo per il fatto di venir contraddetti a parole una, cento o mille volte nei messaggi televisivi. La procedura che in Italia conduce all’approvazione della legge finanziaria è ben nota e praticata da anni Questa volta però essa ha attraversato in sei mesi vicende a dir poco inconsuete, per non dire eccezionali, sulle quali non si può sorvolare. Nessuna finanziaria precedente ha conosciuto un iter così trasparente e così intensamente partecipativo quanto l’attuale.

Ogni Ministro ha preso parte al gigantesco cantiere, manifestando esigenze raccolte nel concreto contatto con la realtà della quale è il responsabile politico e istituzionale di punta. Le Regioni, le Province, i Comuni, le rappresentanze dei lavoratori e degli imprenditori, i commercianti, gli artigiani sono stati ascoltati a lungo, ripetutamente, approfonditamente. Il Governo ha operato una sintesi e l’ha espressa in tre punti: sviluppo, risanamento, equità.

Le molte centinaia di disposizioni che compongono la manovra sono state più volte sezionate, riconsiderate sulla base di critiche e osservazioni, rimodulate, riscritte. Il Parlamento, a sua volta, ha introdotto modifiche, miglioramenti, elementi ulteriori, pur lasciando intatte le mura portanti della manovra.

Tutto questo è positivo, è espressione di democrazia, è strumento per migliorare i testi legislativi, è acquisizione di apporti critici e di consensi. Guai a lamentarsene come se fosse un male del quale dovremmo liberarci. Lo dice un Ministro che non proviene dalla professione politica, ma che della politica, alla quale è stato chiamato, ha un altissimo concetto.

E’ positivo ma ha i suoi costi: il flusso ininterrotto delle notizie ha dato l’impressione – un’impressione spesso lontana dalla realtà – di affanno, di confusione, di incertezza. Me ne dolgo e me ne scuso, a nome del Governo, con i cittadini. A questo occorrerà porre rimedio, anche migliorando le procedure, per far sì che già dall’anno prossimo il percorso divenga più lineare.

E’ naturale la tentazione di pensare a quanto sia più agevole e più gradevole la procedura dei Paesi nei quali la proposta del Governo va tal quale al voto del Parlamento. Il budget inglese viene approvato in cinque giorni e tuttavia anche in quel sistema l’intervento dell’Aula di Westminster interviene dopo un’intensa fase di lavoro e confronto parlamentare nella competente Commissione.

Al riguardo, convengo pienamente sulle considerazioni svolte in questa sede dal presidente Morando, cui desidero rivolgere – così come al relatore in Commissione, senatore Morgando – un ringraziamento particolare per l’equilibrio, la fermezza, la chiarezza di metodo con cui ha diretto i lavori. (Applausi dai Gruppi Ulivo, RC-SE, IU-Verdi-Com, Aut, Misto-IdV e Misto-Pop-Udeur).

Chi vi parla è un sostenitore della concertazione, del confronto, della ricerca della soluzione più accettabile in termini di equità e di efficacia ed è ben consapevole di quanto sia essenziale, sostanziale il contributo che deriva da un pieno coinvolgimento del Parlamento.

Non tutto è però sempre positivo nel processo vitale e tormentato della nostra democrazia. E proprio per salvaguardare l’inestimabile valore di questo processo, occorre a tutti i costi evitare che la spinta, pur legittima, per la tutela degli interessi particolari superi la soglia del ragionevole. Occorre evitare che il coro delle richieste particolari, pur comprensibili e quasi sempre di per sé giustificate, diventi così assordante da fare tacere la voce profonda ma fievole dell’interesse generale e del bene comune.

Il rischio per l’Italia sarebbe molto alto, se si smarrisse la bussola dell’interesse generale. Lo ha detto benissimo Gustavo Zagrebelsky, in un articolo di pochi giorni fa, che cito testualmente:

La politica pesca dalla società le istanze che essa vuole rappresentare. Tante cose eterogenee e tanti soggetti sociali, conflittuali tra loro e al loro stesso interno, che con i mezzi più diversi cercano di farsi strada e che la classe politica è tenuta a selezionare. Un caos di istanze tra le quali si deve però fare una prima, fondamentale distinzione, a seconda della prospettiva in cui si collocano: individuale e immediata, oppure generale e duratura.

In questa distinzione traspare il pericolo della catastrofe della democrazia, cui è esposta per cecità o per incapacità di allungare il suo sguardo.

Ebbene, è per l’interesse generale dell’Italia che si è fatta questa finanziaria. Il Governo ha ascoltato e raccolto diverse istanze, ma senza perdere di vista i tre obiettivi che ho appena ricordato e senza mancare il traguardo stabilito. Un traguardo, sia detto per inciso, che oggi alcuni contestano avanzando la tesi che l’intero aumento del gettito del 2006 sia ormai strutturale e, soprattutto, aggiuntivo rispetto alle previsioni. Non è vero. Il Governo ha costantemente aggiornato le stime del gettito e la finanziaria tiene conto, quasi per intero, del maggior gettito tributario del 2006. Non c’é quindi un tesoro nascosto da spendere, almeno per ora.

Vi è chi ha sostenuto persino la tesi stravagante che per sistemare tutto sarebbe bastata una manovra da 15 o addirittura da 7 miliardi, una tesi del tutto fuori della realtà. Giudizi fondati su una lettura errata, se non pretestuosa, dei fatti e dei dati. Non l’albero, ma addirittura il cespuglio o il filo d’erba, ha nascosto la foresta. E allora non meravigliamoci se il cittadino non capisce. E magari protesta. Ma la foresta c’era, c’é, e a questa bisognava e bisogna guardare. In questi mesi di intenso lavoro è stata mia costante cura verificare, quanto più spesso possibile, le richieste e le reazioni di chi lavora e produce. Piuttosto e prima per ascoltare che per persuadere. Ciò mi é sembrato e mi sembra tanto più necessario in presenza di misure senza dubbio severe. Ebbene, in Veneto come in Lombardia, in Romagna, in Abruzzo, in Toscana e altrove ho ascoltato certamente critiche, insofferenze, impazienze. Ma anche, in misura non inferiore, segnali inequivocabili di consapevolezza e disponibilità a modificare comportamenti che pregiudicano uno sviluppo sano dell’economia, a cominciare dall’evasione fiscale.

Quando confronto l’immagine catastrofista di tanti commenti con quella degli incontri pubblici e privati, allargati o ristretti, ai quali ho preso parte personalmente, non posso non notare uno iato. Quasi si trattasse di due mondi separati.

La mia convinzione, che ogni incontro sembra confermare, è che l’Italia ha in sé energie vitali ancora enormi. Certo non vi è più la spinta prepotente al benessere che fu propulsiva negli anni Cinquanta e Sessanta, né la sfida immediata del Mercato comune che costrinse a fare subito il salto necessario a vincere la concorrenza dei Paesi vicini. Certo oggi la sfida é più ardua e non può essere agevolata dallo strumento facile e ingiusto delle svalutazioni competitive. La sfida può e deve venire da una giusta ambizione sul futuro del Paese.

Mi sia lecito rivelare, al termine di un processo politico intensissimo, durato sette mesi, che in più momenti ho temuto che si avverasse la sorte del vecchio pescatore raffigurato da Hemingway ed evocato da Altiero Spinelli nel febbraio 1984 davanti al Parlamento europeo: il rischio di giungere a riva con la sola lisca nuda e spoglia del pesce tanto faticosamente arpionato. La sorte, ma anche il merito dei tanti soggetti, politici e non, che hanno contribuito a costruire la finanziaria che ora siete chiamati a votare, hanno determinato un esito diverso.

Ci sono, nella finanziaria e nell’azione complessiva del Governo in questi mesi, le premesse per costruire il domani. Innanzitutto una finanza pubblica più sana, condizione indispensabile per uno sviluppo sostenibile, per rinforzare la voglia di investire sul futuro, per orientare risorse pubbliche alla crescita e, soprattutto, per ridare prospettive ai giovani.

Bisogna quindi essere fieri di quanto fatto fin qui e del coraggio del Governo nel dire la verità ai nostri concittadini, ma bisogna nello stesso tempo riconoscere che siamo solo all’inizio, che molto rimane da fare in tutti i campi che ho appena ricordato e che il lavoro andrà continuato fin da subito con ancor più tenacia e volontà. Questa finanziaria ci permette di farlo con rinnovato ottimismo.

Vi ringrazio. (Prolungati applausi dai Gruppi Ulivo, RC-SE, IU-Verdi-Com, Aut, Misto-IdV e Misto e dai banchi del Governo. Commenti dai banchi dell’opposizione).

da L’Unità.
MaxiEmendamento

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